Sono Carlo Ferri, psicologo iscritto all’ordine del Veneto e psicoterapeuta in formazione presso la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica. Opero nell’ambito territoriale del servizio di psichiatria di Verona, in collaborazione con la cooperativa Azalea. Esercito la libera professione all’interno di un poliambulatorio a Zevio e nel mio studio privato, situato in prossimità del centro di Verona.
Dopo anni di formazione presso importanti psicoanalisti del panorama italiano e internazionale, mi sono ritrovato spesso a pensare al mondo della psicoanalisi e a come essa possa essere percepita dai non addetti ai lavori. Siamo sinceri, spesso si ha la concezione dell’analista come un anziano signore con la barba e i capelli bianchi che ci fa accomodare sul lettino e cerca di scavare nel nostro inconscio. Verrebbe da dirgli di farsi gli affari suoi.
Vorrei allora provare a fare un po’ di luce sulla questione. Riprendendo le parole di Ogden “la psicoanalisi è un’esperienza emotiva vissuta”, di conseguenza non è sempre possibile riuscire a riassumere o a descrivere cosa avviene all’interno di quella stanza, perché ognuno di noi vive gli incontri secondo il proprio stato d’animo. Un noto psicoanalista, che considero come un maestro, un giorno mi disse che i nostri pazienti hanno il “compito” più bello di tutti, quello di parlare, parlare di qualsiasi cosa gli venga in mente. Sarà poi il terapeuta a dover pensare al resto, a fare il suo lavoro. Ho sempre visto la seduta psicoanalitica come un sogno dove il terapeuta si immerge in quello che è il racconto del paziente. Si mette l’elmetto quando c’è bisogno di combattere, si veste da clown quando si è al circo e si commuove insieme a noi. Il sognare insieme l’esperienza emotiva, anche sofferente, è forse la più grande forza. È come se la sofferenza fosse un “mostro” di un videogioco. Poterci giocare, affrontarlo insieme ad una persona che magari ha già superato quel livello, può aiutarci.
I pazienti che si rivolgono a un analista possono essere pensati come individui che soffrono di incubi, cioè di sogni così spaventosi che interrompono il lavoro psicologico. […] Il paziente che si sveglia da un incubo ha raggiunto il suo limite della sua capacità di sognare da solo. Ha bisogno della mente di un’altra persona – che abbia conosciuto la notte – che lo aiuti a sognare quegli aspetti del suo incubo che ancora devono essere sognati.”
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